Jambo… Sarà la prima parola che sentiremo arrivando e l’ultima che ascolteremo lasciando Zanzibar.
Vuol dire “ciao, benvenuto tra noi”. Gli abitanti la usano come saluto, come augurio, come intercalare, accompagnata sempre da un sorriso. Chiudi il passaporto e sei nelle loro mani, un mood africano regno di poesia, profumi e mille contrasti. Un miscuglio etnico che vive in armonia, il fascino di bellezze naturali impregnato della cultura swahili, dove i costumi abbagliano, gli odori pungono, i suoni intrigano, gli sguardi si toccano e ti chiedono chi sei. Un volto dell’Africa tutta da scoprire, tra le attenzioni di un resort esclusivo dove qualsiasi sogno è realtà, qualsiasi desiderio fa parte dell’ all inclusive, dove i fiori hanno mille colori, la cucina ha mille sapori, le spezie hanno mille profumi. Dove è emozione allo stato puro aprire la finestra e perdersi in quel mare che ha il colore del cristallo, la sabbia ha il colore del borotalco e i tramonti incendiano il cielo.
Il nome ha origini incerte, c’è chi dice derivi dall’arabo Zini-el-barr (terra dei neri), chi lo accosta a Zayn-za-l’-barr (bella è quest’isola) o a Zanjabl (zenzero).
L’isola si chiama in realtà Unguja (l’abbondanza) poiché Zanzibar è il nome di tutto l’arcipelago, che comprende anche Pemba e una cinquantina di isolette minori, è lunga 85 km e larga 30, vi abitano poco più di un milione di persone, la maggior parte nel capoluogo Stone Town. Per secoli sotto varie dominazioni fino al protettorato del sultanato di Oman e all’indipendenza sancita dall’unione con Tanganica nel 1964, che unendo le prime tre lettere dei due nomi ha dato vita all’attuale Stato: Tan Zan.
Zanzibar è un paese povero, ma la gente non muore di fame come nell’africa subsahariana: c’è una ricca vegetazione e ovunque ci sono alberi di frutta. Il mare è molto pescoso e le barche tornano sempre con ricchi bottini. Anche per questo motivo la gente è mite e cordiale, e osserva i turisti con curiosità, fierezza, e l’immancabile “hakuna matata” e il “jambo” accompagnati da un sorriso.
Certo, i problemi non mancano, la corrente arriva dal continente ed è molto cara, l’acqua bisogna andare a recuperarla ai pozzi, gli stipendi sono molto bassi (un insegnante guadagna circa € 100 al mese) i trasporti pubblici, dove arrivano, generano spesso caos poiché tutti diventano taxisti, guidatori di pulmini “dalladalla” cioè camioncini sgangherati trasformati in autobus di linea stracarichi di persone e mercanzie, guidati spesso da autisti che si disinteressano del codice della strada pur di assicurarsi un passeggero in più. Poi ci sono i motorini, biciclette e tantissime persone che si muovono a piedi ai bordi della strada. La maggior parte sono donne che trasportano fascine di legna, taniche d’acqua, frutta o pesce essicato. Per i turisti sono “scenografiche” da fotografare con i loro kanga dai colori sgargianti dove dipingono i proverbi swahili. In realtà sono loro che si sobbarcano i lavori più pesanti. Al mattino presto si vede poi una quantità impressionante di bambini che si recano a scuola. Ogni villaggetto, proprio perchè i trasporti pubblici scarseggiano, ha una propria scuola, con classi uniche di 50-60 bambini. Non ci sono libri, pochissimi i quaderni, l’insegnante fa lezioni orali e i bambini ripetono in coro le sue parole.
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